Intervista al Dott. Piero Budassi

pietro budassi

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Abbiamo avuto il piacere di intervistare il Dott. Piero Budassi, Responsabile Sanitario del
Poliambulatorio Akesis Sant’Abbondio di Cremona e riconosciuto come uno dei più importanti
ortopedici del territorio cremonese. Grazie a quest’intervista abbiamo avuto modo di scoprire molte
cose riguardo i rimedi all’artrosi, la mininvasiva protesica e la medicina rigenerativa.
Il Dottore si è laureato con lode presso l’Università degli Studi di Pavia e specializzato in Ortopedia
e Traumatologia presso l’Università degli Studi di Milano, dal 2005 al 2009 è stato primario
dell’Unità Operativa di Ortopedia e Traumatologia del Presidio Ospedaliero “Oglio-Po”, dal 2009
al 2019 è stato invece primario dell’Unità Operativa di Ortopedia e Traumatologia del Presidio
Ospedaliero di Cremona, dal 2014 al 2019 Direttore del Dipartimento di Neuroscienze degli Istituti
Ospitalieri di Cremona.

Che cos’è l’artrosi e perché colpisce tante persone?

Le articolazioni sono gli snodi attraverso i quali il nostro organismo si può muovere nello spazio e
per questo sono fondamentali per l’autonomia di ognuno di noi. A ricoprirle vi è una cartilagine
liscia e lucida che riduce gli attriti e che permette un movimento indolore e fluido
dell’articolazione. Purtroppo le articolazioni possono essere colpite nel corso della vita da una serie
di malanni che molto spesso hanno a che fare con malattie infiammatorie o con problemi vascolari
che, interrompendo il flusso di sangue all’articolazione, ne minano la struttura; oppure vi possono
essere fenomeni degenerativi che vengono definiti generalmente di tipo artrosico. L’artrosi è una
malattia dell’ambiente articolare che è particolarmente subdola, è molto diffusa e insorge molto
lentamente, fatto che ne rende difficilmente diagnosticabili le fasi iniziali e per questo ci
accorgiamo della sua esistenza quando è veramente molto tardi. Colpisce praticamente tutte le
nostre articolazioni, ma in particolar modo quelle che supportano il peso corporeo (gli arti inferiori
e la colonna vertebrale). Si manifesta di solito con un’alterazione profonda della cartilagine che si
ammorbidisce, si assottiglia e si frantuma; talvolta scompare fino a scoprire l’osso. Questo fattore
produce dolore e forti limitazioni del movimento, e può provocare la deformazione
dell’articolazione stessa che in questo modo perde le caratteristiche geometriche riducendo la
capacità di movimento nell’individuo.
Il primo sintomo dell’artrosi è dunque il dolore, e in seconda battuta una limitazione del
movimento. Il dolore nelle fasi iniziali è caratteristico, poiché insorge all’inizio del movimento (ad
esempio dopo il riposo notturno o dopo una stasi prolungata), tende a scomparire durante la
giornata, per poi ripresentarsi alla sera quando abbiamo affaticato le nostre articolazioni. Questo
dolore in 3 fasi è abbastanza caratteristico dell’inizio dell’artrosi. Colpisce molte persone perché ha
a che fare con la vita quotidiana: non sappiamo se ci sia qualche motivo legato a fattori intrinseci,
sicuramente c’è una certa familiarità – ma è molto più legata alla vita che conduciamo; e può essere
frequentemente associata ad attività lavorative particolari o al peso corporeo, agli esiti di traumi che
possono aver modificato la biomeccanica dell’articolazione (come ad es. lesioni legamentose
trascurate).

Quando bisogna intervenire e quali sono le soluzioni migliori?

Proprio perché l’artrosi è una patologia che insorge in maniera lenta e subdola, è difficile
identificare il momento giusto per intervenire: certamente è importante, all’inizio del problema,
intervenire sulla mobilità e sul dolore. Cioè occorre che, sin dalle prime fasi, il paziente sia
stimolato il più possibile a mantenere l’escursione articolare corretta con esercizi di ginnastica e
fisioterapia eseguiti con costanza. Altrettanto importante è il controllo del dolore, inizialmente
eseguito con medicamenti leggeri di tipo antidolorifico. Nelle fasi successive può esserci anche il
supporto di tecniche un pochino più invasive, come la viscosupplementazione, ovvero
l’infiltrazione di acido ialuronico (ne avevamo parlato qui).
Quando il problema diventa più serio è necessario arrivare a strategie di tipo chirurgico: per alcune
articolazioni, ad esempio, possono essere indicati interventi di osteotomia, grazie ai quali si
modifica l’asse di carico dell’arto risparmiando la parte di articolazione già parzialmente
danneggiata e caricando la parte ancora in buone condizioni per prolungare la vita naturale
dell’articolazione.
Poi vi è la chirurgia protesica, che andrà eseguita nel momento più indicato, ovvero quando il
dolore e la limitazione funzionale iniziano a ridurre la capacità vitale del paziente. Oggi le protesi in
uso per le maggiori articolazioni hanno una biomeccanica che è molto simile a quella naturale
dell’articolazione; si tratta inoltre di impianti che godono di una lunga durata, pressoché infinita,
anche per persone relativamente giovani.

Ci sono limitazioni dopo l’intervento di protesi?

In linea di massima dopo un intervento protesico di una grande articolazione (come può essere
l’anca, la caviglia, il ginocchio) non esistono grandi limitazioni al movimento e non c’è
un’importante riduzione della prestazione funzionale. Questo è merito da una parte dei materiali
degli impianti (che negli anni sono molto migliorati sia per la qualità che per la lavorazione dei
materiali), e dall’altra per la biomeccanica stessa degli impianti che è sempre più simile a quella
naturale. Per quanto riguarda la stabilità e la naturalità del movimento articolare, molto dipende
anche dalla tecnica che viene adottata per impiantare la protesi: oggi le tecniche più raffinate sono
quelle che si rifanno ai concetti della chirurgia mininvasiva.
Questa nasce con l’idea di ridurre al massimo l’impatto della chirurgia sul paziente, lasciando
integri il più possibile tendini, muscoli, fasce, legamenti, capsule. Nella chirurgia mininvasiva (che
non ha nulla a che fare con la dimensione del taglio o con questioni di tipo estetico) il rispetto
dell’organismo ospite è massimo e questo si traduce in un minor impatto chirurgico sul paziente al
momento dell’intervento (minor sanguinamento e minor difficoltà a superare il momento critico
dell’intervento) e una velocità decisamente diversa e superiore nel recupero delle funzioni.
È molto frequente, se non comune, che dopo un intervento di chirurgia mininvasiva il paziente
venga messo a recupero della deambulazione e dei cambi posturali fin dal giorno stesso
dell’intervento o al massimo dal giorno dopo. Normalmente il recupero avviene dunque in termini e
tempi molto rapidi e molto più efficienti rispetto alla chirurgia tradizionale.

In cosa consiste la chirurgia protesica mininvasiva?

La chirurgia mininvasiva si sta diffondendo in tutti i settori della chirurgia ortopedica (e non solo).
Per quanto riguarda la sostituzione protesica delle grandi articolazioni ha degli effetti
particolarmente significativi se applicati all’anca, al ginocchio e alla spalla. Se facciamo l’esempio

della chirurgia protesica nell’anca, la chirurgia mininvasiva riduce enormemente una delle
complicanze più temibili in questi casi: l’instabilità e la lussazione postintervento dell’impianto.
Normalmente il paziente viene incoraggiato all’uso pressoché normale dell’arto sin dal primo
giorno, e viene dimesso nella seconda o terza giornata; può così tranquillamente proseguire il
percorso di rieducazione a domicilio riducendo l’impatto della riabilitazione. Per il ginocchio vale
un po’ la stessa cosa, in quanto le tecniche chirurgiche che permettono di salvare interamente
l’integrità dell’apparato estensore, come per esempio le tecniche mininvasive sul subvastus che
conservano completamente l’integrità del quadricipite femorale, anche in questo caso permettono la
ripresa del movimento molto rapidamente, una dimissione precoce e un recupero dell’autonomia
deambulatoria del paziente in veramente pochissimo tempo. E questi sono i principali vantaggi,
unitamente al fatto che l’impatto chirurgico sul paziente è molto ridotto… anche in termini di
sanguinamento e indebolimento e dolore postoperatorio.

Se è troppo presto per l’intervento protesico, come posso trattare il dolore?

Nel caso in cui non sia ancora il momento di sostituire l’articolazione ma il paziente abbia
limitazioni nella vita quotidiana, abbiamo un’arma a disposizione che viene dal nostro stesso corpo.
Lo sviluppo infatti delle tecniche di medicina rigenerativa permette di ottenere risultati lusinghieri
nelle fasi iniziali di queste patologie degenerative. Possiamo andare dunque a sfruttare le capacità
intrinseche del nostro organismo di rigenerare quotidianamente i nostri tessuti rinnovandoli e
riportandoli a una condizione di efficienza. Una possibilità è legata all’utilizzo dei fattori
piastrinici, ovvero una quantità di sostanze contenute all’interno delle piastrine (elementi del nostro
sangue che circolano assieme a globuli rossi e bianchi, responsabili della cicatrizzazione delle ferite
e che vanno a chiudere i vasi sanguigni impedendo l’emorragia). Questi fattori sono estratti grazie a
un semplice prelievo di sangue e poi sono centrifugati, per venire successivamente iniettati
all’interno dell’articolazione. A questo punto le piastrine rilasciano le loro sostanze che favoriscono
la rigenerazione del tessuto cartilagineo e la crescita di vasi sanguigni; in sostanza accelerano i
processi metabolici di guarigione “naturale” della nostra articolazione.
Inoltre possiamo rivolgerci all’uso delle cellule mesenchimali. Si tratta di cellule immature,
dormienti, presenti all’interno di molti dei nostri tessuti, capaci di differenziare una volta attivate in
qualsiasi tessuto maturo, sano e adulto. Possiamo recuperare una grande quantità di queste cellule
aspirando il grasso sottocutaneo, e dopo averlo filtrato e purificato possiamo iniettare il prodotto
che ne deriva all’interno dell’articolazione. A questo punto le cellule mesenchimali contribuiscono
alla rigenerazione di un tessuto simil-cartilagineo che aiuta nelle fasi iniziali della malattia.
Va specificato tuttavia che queste tecniche funzionano bene nelle fasi iniziali della malattia.
Quando invece la malattia è conclamata e quando abbiamo già deformazioni dell’articolazione e
esposizioni dell’osso subcondrale, tutto questo ha effetti limitati… anche se possono essere sfruttati
se non altro per la capacità e la possibilità che hanno di ridurre il dolore dell’articolazione per
ritardare l’atto chirurgico finale. I loro effetti infatti sono abbastanza stabili e prolungati nel tempo.